martedì 9 novembre 2010

Intervista a Elvira Dones - I PARTE




Cara Elvira,

abbiamo pensato di inviarti per ora cinque domande (o quattro domande e mezzo), per iniziare questo carteggio virtuale.
Sono domande incentrate prevalentemente sul viaggiare e sull'adottare una lingua diversa dalla propria lingua madre per scrivere.
Aspettiamo le tue risposte per continuare l'intervista.

Ci piacerebbe molto se tu potessi inviarci la fotografia di uno o più oggetti che ti sei portata dietro nel corso di questi anni e che ti ricordano i luoghi in cui hai vissuto.

Anche noi faremo lo stesso e pubblicheremo le immagini sul blog.
Qui a Torino piove, piove sull'Italia intera che piano piano sprofonda nel suo bel mare (per citare Pasolini).

Il pantano ormai si declina in tutte le sue forme, fisiche e politiche. Ci salveremo? Chissà!

Buona giornata a Los Angeles, giornata appena cominciata!


Alice e Chiara



1- Cara Elvira, in un’intervista hai detto “sono sempre con la valigia e guai a chi me la toglie quella valigia”.

A cosa non può rinunciare una che è sempre in viaggio come te? E cosa sei disposta a lasciare a non chiudere in valigia?



Non potrei non infilare nella valigia i ricordi. Ora, mi direte, i ricordi non sono cose, perciò là dentro non ci vanno. Invece ci vanno, per me sì. I Balcani, dove sono nata e cresciuta, hanno generato troppi volti, dolore, parole, umorismo, solitudine, bellezza e crudeltà.

Non mi sta tutto nella testa, e ho le viscere sovraccariche. Perciò ogni volta in valigia ci vanno i ricordi più profondi: la foto di mio padre; una mia foto vestita da soldato – il servizio militare era obbligatorio nell'Albania di allora; una foto di mio figlio, era talmente bello, un bambino da “consigli per gli acquisti”. Ma quel bimbo riccioluto poche settimane dopo lo scatto della foto mi disse che voleva diventare come Gorbaciov. “Gorbaciov sta facendo la Perestroika che farà diventare l'Unione Sovietica come tutto il mondo. I sovietici andranno in giro per il mondo, noi albanesi invece no” commentò.

Il bimbo di soli cinque anni voleva diventare Gorbaciov e cambiare l'Albania.Vedete? Non sono foto. Sono macigni, segreti, sogni, timori di essere scoperti. Invece lascerei fuori dalla valigia le porcellane, i souvenir, i kilim...




2- Hai traslocato tante volte: dall’Albania alla Svizzera Italiana, dalla Svizzera agli Stati Uniti. C’è un casa che chiami home tra i tanti luoghi che hai abitato? Che cosa resta delle dimore precedenti nella casa in cui vivi ora?


Chiamo home l'oceano Atlantico, e il perché sarebbe lungo da spiegare. O forse no. Da giovanissimi (in segreto, in gruppi strettissimi) discutevamo di un altro mondo: quello fuori dal lager albanese, aldilà della prigione. Alcuni miei amici sognavano l'Italia, altri la Francia o la Germania. Io sognavo un luogo lontano, l'America, ma non perché era “l'America” (per noi ragazzi l'America era l'Italia, parlicchiavamo la lingua, guardavamo di nascosto RaiUno, insomma cose che voi ora sapete, ve le abbiamo raccontate).

Io sognavo l'America per via della distanza che ci separava, ero una bambina estrema e diventai un ragazza estrema. Mi affascinavano i viaggi di Marco Polo; la storia di Gengis Khan; i vichinghi che attorno all'anno Mille si buttarono in un'avventura assurda e provarono (si dice) ad attraversare l'Atlantico: quella massa di acqua immane su certe barchette piccole come scatole di fiammiferi. Bel fegato... Ecco cosa mi spingeva: l'audacia un po' suicida, nonché il bisogno di lavar via il profondo dolore. Comunque non feci cenno a nessuno della mia utopia, mai parlai della mia meta, dicevo solo: “Io non morirò qui. Qui no.” E forse per via di come lo dicevo, nessuno osava cercare di capire di più.


Dall'Albania ho potuto recuperare solo fotografie. Null'altro. Lasciai il paese prima della caduta del muro di Berlino. Venni considerata “un nemico dello stato”.Quando rientrai per la prima volta dopo la fuga e dopo la fine del regime, non riuscii nemmeno a entrare nella casa dove, giovanissima, avevo avuto e tirato su per cinque anni il mio bambino. Non riuscii a portare via ciò che più mi apparteneva: i libri. Una bella libreria: costruita, amata, archiviata, custodita da me e solo da me. Altra lunga storia...


Dalla Svizzera ho portato via tutto: impacchettato, caricato in un container che avrebbe attraversato l'Atlantico. Quintali di libri film musica e pochi mobili essenziali. Perciò la casa dove vivo ora è piena d'amore; impregnata del senso di avventura e di viaggio.

Restano nella casa svizzera i ricordi più conflittuali e di conseguenza i più cari. E' lì che feci conoscenza con l'occidente: mi ero riempita la testa di letteratura, ma la realtà era altra cosa.

Oggi ci ritorno con un senso di nostalgia e di rivincita. La Svizzera mi mise a dura prova, ero “la donna dell'Est”, o meglio “la furba dell'Est”... Il pregiudizio era spietato perché vestito di guanti bianchi. Io avrei preferito di gran lunga i pugni diretti sul volto, quelli sapevo combatterli, ma le finte buone maniere e certi sguardi di sufficienza, altroché se mi mandavano in bestia...

Comunque, con la Svizzera non c'è mai stato un divorzio; e perché avrebbe dovuto succedere? Oggi, ogni volta, a ogni ritorno, provo l'emozione di sedermi in quel meraviglioso giardino dove mia figlia mosse i primi passi e dove mio figlio diventò un adolescente e poi un giovane cittadino del mondo.



3- E la tua libreria? Contiene testi che hanno viaggiato con te in questi anni?


Beh, i libri restano una malattia. Mi consola però il fatto che è una malattia assai diffusa tra la gente del club cui appartengo. Avevo scritto il primo romanzo all'età di nove anni scarsi. Erano dieci pagine. Il titolo era “Romanzo”... Ridicolo, no? Ogni tanto volto la testa e vedo quella ragazzina: impacciata come pochi. La casa di oggi è un'orgia di libri. Vivo con un compagno che li ama tanto quanto me, per cui non c'è nessuno che ferma l'altro quando si tratta di aggiungere altri libri.



4- Secondo Humboldt, a ogni lingua corrisponde una specifica visione del mondo:quali sono le diverse visioni del mondo che stanno dietro alle due lingue che hai utilizzato per scrivere (italiano e albanese)? Cosa implica guardare alle proprie origini da lontano e scriverne in una linga differente?


La visione del mondo è la mia, con arroganza e umiltà (perfetta contraddizione, lo so), piego le lingue alla mia visione del mondo. Devo alla lingua albanese moltissimo: è una lingua “piccola”, se andiamo a guardare i numeri. Pochi milioni di albanesi e kossovari che la parlano. Ma quanta forza...
Ho iniziato a ficcare il naso molto presto in altre lingue. Iniziai a studiare l'italiano a otto anni. L'inglese a tredici. Il francese a diciotto. Il tedesco a ventidue. Lo spagnolo a trentaquattro anni...

Ho scritto i primi sette libri in albanese, ed era come andare a nozze. Quello avevo desiderato fare: scrivere. Iniziai aiutata da una visione stupendamente vivace e devastante. La lingua albanese è molto ormonale e gioiosa (più sei un paese piccolo e più vuoi rompere gli argini). Ma più tardi, e con grande timore, qualcosa mi ha spinto a scivolare verso l'italiano. E' lunga storia pure questa.

In breve, per quanto mi riguarda “rubo” con molta leggerezza e forse con incoscienza da diverse lingue. Vivere sempre in luoghi diversi; essere in contatto, non di rado, addirittura con i diversi dialetti oppure i lingos delle lingue altrui, fa sì che ogni idioma penetri nell'altro. Ecco, tengo in testa una vera Babele...Un grande cruccio mi resta: non avere studiato il russo, l'ebraico e l'arabo...

L'amore per i paesi passa in me attraverso la lingua, la musica e i paesaggi di quel paese. Quindi sono d'accordo con Humboldt e al contempo mi permetto di contestarlo – sempre a livello personale. Ogni scrittore è un'isola arrogante; fragile; sola e popolata al contempo. Si sceglie, dentro la propria lingua, la visione che vuole, non ciò che gli si impone.



5- Per esempio la parola “mare” in greco ha molteplici nomi e significati: il mare è als cioè sale, è pelagos cioè distesa d’acqua, è pontos quindi vastitià e viaggio, è thalassa quindi mare come esperienza: hai incontrato parole le cui sfumature di significato sono difficilmente traslocabili da una lingua all’altra?

Mi fermo a una sola parola della mia lingua materna: mall. Di sicuro nella vastità del pianeta linguistico ci sarà una lingua, addirittura più d'una, che esprime la stessa identica cosa con la stessa identica forza. In albanese mall è la mancanza di qualcuno in maniera struggente, definitiva, quasi distruttiva. La nostalgia fatta morte, fatta vita, fatta viscere; è il più puro, il più intransigente degli amori. Quando in albanese si dice “Më ka marrë malli” (mi ha avvolto, mi ha colto il mall) non è “mi sei mancato”. Parole come mancanza, nostalgia, di fronte al “mall” impallidiscono. “Mi sei mancato” in albanese esiste, si dice “Më ke munguar”. Quando dici mall intendi l'amore definitivo e il più generoso che un essere umano possa dare.



E. Dones

November 7, 2010

Washington D.C. - USA


2 commenti:

  1. mi piace molto la parte sulle parole intraducibili. potemmo farne un dizionario. "Dizionario delle Parole intraducibili":

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  2. Sì, lo so, l'aspetto grafico lasciava un po' a desiderare... ma cerca di capire, una rapida pausa pranzo alla macchinetta mi ha causato una crisi iperglicemica con profondi effetti psicofisici.
    Grazie per le correzioni :)

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